Simonetta Longo esordisce con una raccolta organica di versi, Notturlabio, ancorché sue anticipazioni siano state pubblicate in antologie e la sua opera sia pertanto già nota al pubblico e all’attenzione di poeti e addetti ai lavori. E tuttavia leggere in successione l’intera silloge è altra cosa. Leggendo, quindi, e rileggendo i versi di Simonetta Longo se ne apprezzano le ricche qualità espressive e possono venire individuate con sicurezza fondamenta ed elementi caratterizzanti. Ed ecco allora che statuendo le opportune relazioni tra le singole parti e il tutto da cui l’opera è composta e in cui l’opera si articola e si rispecchia, ci si rende immediatamente conto che il silenzio sia molto più che una semplice suggestione, una condizione transitoria, il richiamo — per quanto potente — a una dimensione aurorale della poesia. Tutte cose ugualmente presenti, beninteso, ma che non esauriscono affatto la ricca varietà meditativa che la parola silenzio porta con sé. L’ispirazione poetica coltivata da Simonetta Longo proviene dal silenzio, attraversa il silenzio, genera silenzio. Tutto questo è però reso possibile dalla tenue atmosfera di sogno da cui è pervasa l’opera e dalla profonda relazione che la poetessa ha inteso elaborare con se stessa, nella ricchezza della propria vita interiore, attraverso la consapevole ricerca della solitudine, che traspare in maniera implicita e non di rado anche esplicita dalla fitta trama dei versi da cui Notturlabio è composto. Basti dire che la parola silenzio ricorre nel testo ben ventotto volte, con la precisa intenzione di sostenere della realtà quello che le parole della concretezza materiale non riuscirebbero a dire. Annota Simonetta Longo in uno dei versi più significativi dell’intera raccolta: «e tutto è silenzio». Ci informa la poetessa di questa sottile consapevolezza fin dalle prime battute della sua opera prima, in Notturlabio, il proemio che dà il titolo all’intera silloge. Perché, se tutto è silenzio, allora non è possibile affermare alcunché della sua costante presenza nel mondo in altro modo se non nominandolo ogni volta questo appaia, in ogni occasione se ne avverta il bisogno. Perché tutto ciò sia possibile, è necessario andare oltre i fatti, per abbozzare una qualche forma di comprensione, indicando del silenzio alcune delle sue qualità proteiformi. È necessario inoltre affermare il valore euristico del silenzio nell’impresa di riconoscere e nominare la realtà. Scrive Simonetta Longo nel proemio: «Vago da sola sulla terra / lungo le ferite della notte / cercando un passo nuovo / e tutto è silenzio / intorno / cerchi d’alberi / intrichi di rovi / misteri di nuvole sparse / come squarci al velo del buio». Riconoscere che tutto è silenzio, ci dispone opportunamente a fare nuove tutte le cose, «Allora — prosegue la poetessa — il mio occhio / è una spia d’infinito / e il notturlabio / […] il grande rivelatore / delle mie / previsioni dall’ombra». Il silenzio precede e supera il buio, lo comprende; entrambi sono tuttavia indispensabili a coloro che, come Simonetta Longo, vogliano giovarsi del notturlabio, al fine di trovare la giusta collocazione nello spazio e nel tempo di ogni singolo oggetto da cui la realtà è costituita; individuare nel tempo e nello spazio le coordinate del proprio sé poetico. Ecco che allora il notturlabio è necessario per costruire solide relazioni poetiche. A partire da questa prima e fondamentale considerazione sul significato del silenzio, desunta dal proemio — presumibilmente scritto in corso d’opera, se non proprio alla viglia della pubblicazione del volume — è ora possibile osservare come il silenzio si colloca e si configura nella poetica della poetessa salentina. Nella prima delle sei sezioni in cui si articola l’opera, Previsioni della vista, il termine silenzio occorre cinque volte. In particolare nella poesia Medusa la parola silenzio è situata nel verso di chiusura. Lo sguardo di Medusa pietrifica; l’uomo che guardasse la verità diritta negli occhi verrebbe trasformato in statua: persino la stessa Medusa non può guardare se stessa negli occhi, allo specchio. Possono però gli uomini schermare lo sguardo della gorgone proprio tramite lo specchio: lo specchio della poesia, perché questa ci restituisce l’immagine fedele, per quanto rovesciata, della verità. Recita così, in effetti, il verso che chiude la poesia: «avrò le mie vittorie / e potrò ancora ammaliarvi / prima d’incastonarmi come pietra / di silenzio». Come dire che se la verità lascia di sasso, lascia nondimeno ammutoliti, ammantati di silenzio. La verità proviene dal silenzio e genera silenzio. Nella poesia Delle essenze, alla sezione Previsioni dell’odorato scopriamo che il silenzio detta il ritmo del viaggiare, da fermi, attraverso i sensi. Così si esprime in proposito la poetessa: «Come Des Esseintes / in un viaggio da ferma / aspiro essenze orientali / ombreggiate di pepe e cinnamomo / al ritmo del silenzio». Il silenzio prepara e accompagna ogni nostra sensazione, rivelandosi, quindi, condizione propria del sentire, ben al di là della semplice relazione con il senso dell’udito, che pure c’è ed è viva e operativa. Se poi nelle Previsioni della vista il silenzio sembra assumere le solide sembianze della pietra, nelle Previsioni dell’udito il silenzio appare piuttosto della consistenza dell’acqua. Acqua di fiume, dell’oceano, in un canale: a seconda dei casi. Leggiamo in Finis Terrae: «Ho asciugato il silenzio / in attesa dell’Inquisitore / le fragole sono morte sullo stelo / ma l’Adriatico è lontano / per sentirne le urla / a Finis Terrae». Il silenzio è, questa volta, dalla consistenza umida, necessario alla navigazione, alla vita, per immaginare una nuova vita all’altro capo del mondo. Il silenzio diviene allora questione di vita e di morte, specie se prosciugato. In Libri dannosi, nella sezione Previsioni del gusto, scrive la poetessa: «Ti sei mangiata la notte / spalmata sul silenzio / sapendo che ti avrebbe / bruciato le viscere / ma ci sono piaceri attraenti / irrimediabilmente». La notte e il silenzio; la scrittura e la lettura: in una parola la cultura, che è lo spazio entro cui l’ispirazione della poetessa irrompe per agire con maggiore veemenza. Nella cultura occorre orientarsi, di notte, con il notturlabio, nel silenzio; scrivere e leggere libri che al limite possono essere dannosi, decifrare la realtà che emerge da un fondo di silenzio, ovvero lasciare che rimanga nella sua condizione di indeterminatezza. E poi c’è la notte, che viene spalmata sul silenzio, caustico. Nella lirica La ninfa d’acqua, nella sezione Previsioni del tatto, riecheggia il silenzio, in un clima da sogno, tra delicati rimandi e metafore, tutte al mondo liquido. Eccone una traccia: «Tu dormi / abbandonato splendore / non ti salveranno le stelle di fiume / dal mio agguato d’acqua / ignaro ti avvolgerò nelle mie onde / già fluisco e ritorno a me stessa / in un assalto di sete / ma tu dormi / tra fiori d’azzurro silenzio». Insomma, la poetessa lancia l’esca di una sinestesia per ribadire una volta di più che tutto proviene dal silenzio e tutto sembra fluire in direzione del silenzio. La parte per il tutto, mentre il tutto è ben lungi dall’essere un orto concluso. Il silenzio assume per Simonetta Longo la funzione “chenotica”, di svuotamento e successivo accoglimento dell’evento imprevisto, l’accettazione in chiave propositiva dell’errore come parte integrante della poesia e perciò stesso della vita. La poesia di Simonetta Longo si fa progressivamente apertura al mondo e mondo essa stessa, si configura perciò come autentica missione. In Le poesie-in-silenzio, alla sezione Il quinto senso e mezzo, è possibile ancora accostarsi a questi versi: «il poeta vorrebbe dormire / ma arriva il verso sbagliato / e gli tocca unirsi al silenzio / per riprendere il gioco». E poi, ancora, in chiusura della lirica: «finché il poeta non resta solo / la corda oscilla tra le mani / e si fa giorno». Se il verso non tocca le giuste corde, la comprensione della realtà diviene inadeguata. E tuttavia è sempre possibile redimersi, rimediare alle incomprensioni: facendosi uno con il silenzio, assumendone i rischi, contemplandone il volto. Occorre lasciare che il silenzio generi altro spazio dove muoversi e altro tempo dove abitare, dentro e fuori se stessi. Se è pur vero che ogni verso inadeguato svanirebbe con il sopraggiungere della luce del giorno, è altrettanto vero che non ci sarebbe giorno se non rimanessero da soli, il poeta e la sua poesia, a giocare il gioco del silenzio.
[1] QUANDO LA LUNA è QUINTADECIMA
Anch’io mi
farei il segno della croce / con la mano mancina alzandomi dal letto / quando
la luna è quintadecima (plenilunio) / farei buchi con le unghie ogni tanto / e
trasformerei le pietre in pane ne mangerei / anch’io me ne andrei / senza darlo
a vedere oltre lo Stromboli (lontanissimo) / Padre Figlio e Spirito Santo /
lascerei che la gente mi criticasse / facendo la volontà di Dio senza cercare
la lode.